Mostra collettiva

Forse in un'altra piazza

a cura di Ivana Spinelli

dal 6 al 16 Giugno 2019

Forse in un’altra piazza (ex anatomia di città) CIT. 1* “Strada facendo verso la casa della ragazza dagli occhiali scuri attraversarono una grande piazza dove c’erano gruppi di ciechi intenti ad ascoltare i discorsi di altri ciechi, a prima vista nè questi nè quelli lo sembravano, chi parlava volgeva infervorato la faccia verso chi ascoltava, chi ascoltava volgeva attento la faccia verso chi parlava. Si proclamavano la fine del mondo, la salvezza penitenziale, la visione del settimo giorno, l’avvento dell’angelo, la collisione cosmica, l’estinzione del sole, lo spirito tribale, l’umore della mandragora, l’unguento della tigre, la virtù del segno, la disciplina del vento, il profumo della luna, la rivendicazione della tenebra, il potere dello scongiuro, l’impronta del calcagno, la crocifissione della rosa, la purezza della linfa, il sangue del gatto nero, il sopore dell’ombra, la rivolta delle maree, la logica dell’antropofagia, la castrazione indolore, il tatuaggio divino, la cecità volontaria, il pensiero convesso, quello concavo, quello piano, quello verticale, quello concentrato, quello disperso, quello sfuggito, l’ablazione delle corde vocali, la morte della parola. Qui non c’è nessuno che parli di organizzazione, disse la moglie del medico al marito, Forse è in un’altra piazza, rispose lui. Continuarono a camminare.”
CIT. 2* “E come potrà organizzarsi per vivere una società di ciechi. Organizzandosi, l’organizzarsi è già, in un certo qual modo, cominciare ad avere occhi.” *“Cecità” Saramago, Einaudi Milano, 2005
NOTE 1, 2, 3, 4 Una città tranquilla. E pure la più violenta. Mentre trema la città si scuote, e insieme ai cornicioni rischia di cadere lo sguardo; più aumenta la fatica, il disagio e più gli insicuri si attaccano all’idea di tirare su dei muri, che li difenda dall’impatto con la realtà. Nella città c’è un’accademia, dove si studia arte, si guardano le opere, si discute di poetica. Guardare non è vedere con gli occhi, non è solo usarli, percepire, ma rivolgere lo sguardo. Scegliere. E in questo senso l’arte non fa che scegliere continuamente dove rivolgere lo sguardo, comprendere nella scena qualcosa che altrimenti era escluso o, se c’era, percepirlo diversamente. Oppure talvolta finisce per guardare in modo convenzionale, e riproporre ciò che è già appurato, ma quello è un discorso che qui mica ci interessa. Qui lo sguardo sceglie per problematizzare, esce dalle stanze dell’accademia e cammina nella città. All’inizio c’è un po’ di incertezza, si fanno foto mentre si passeggia, concentrandosi su qualche aspetto formale, si gioca, si ride, si prende il caffè. Le foto caricate sul cloud inquadrano tubature, scorci, tombini, campanelli, impalcature, reti. È ancora freddo e anche i pensieri hanno bisogno di rodare. All’uscita successiva già lo sguardo si affeziona a qualcosa. Poi si fanno bozzetti, si discute. E pian piano vengono fuori dei ritagli. Quel che c’è in mostra è solo una selezione di tutto ciò che si poteva mostrare; è ciò a cui si è scelto di dare tempo e spazio.
***
Un giaccone, uno sgabello da bar, scorci di cielo, cuscini, rami, cemento, un parabrezza e un quadro autentico. Gli elementi in mostra si potrebbero sintetizzare così, eppure nessuno di questi elementi è un giaccone, uno sgabello da bar, scorci di cielo, cuscini, rami, cemento, un parabrezza e un quadro autentico. Infatti, la pipa non è una pipa, la sedia è tre sedie...e così via. Li potremmo sviscerare tutti. Essendo questo il testo per una mostra dovrebbe a questo punto avere un linguaggio più specifico.
IPOTESI 1 Diverse le uscite e le ricognizioni fotografiche, finchè lo sguardo dalla città si ribalta dentro allo spazio espositivo, e si lascia attraversare da alcune domande; (e questo è il momento più arduo del testo, dove in poche righe chi scrive deve cogliere il focus di un lavoro, e non lo invidio) il rapporto tra città e natura e tecnologia (o tra città e natura, e tra natura e tecnologia, e tecnologia e umano) balena nella [Tree of Limbs] piccola foresta di rami di ulivo ricuciti col cemento da Lucia/Andreozzi, che a sua volta è ritratta in uno scatto fotografico poi risolto nella rappresentazione scomposta [My Coat calls] di Alessia Rinaldi. In entrambi i lavori c’è uno smontare e rimontare che fa slittare un po’ la percezione, finchè Isabella non la fa quasi scivolare e là dove vede il cielo, lo rende solido. Così si attivano dei piccoli cortocircuiti, il ramo non si sa più se è morto o vivo o entrambe le cose, la figura è scomposta, i capelli e i piedi schiacciati a terra, mentre la figura attiva è “un giaccone” in equilibrio sui tasti dello smarthphone, ti tit tit, si sente in loop, come se una scultura di legno potesse mandare messaggi. E il cielo è più architettura dei palazzi, cioè Isabella Torregiani [Vuoto] ci indica dove si posa il suo sguardo, e mentre cammina in città guarda in sù come pochi si permettono di fare e decide di dare spazio a quei frammenti di cielo, così ridotti, manco fossero avanzi nel disegno della città, tra un edificio e l’altro, così diversi dal cielo aperto sulla campagna che all’artista è molto caro. Roberta invece (Brugnola) fotografa una serie di lampadari, le luci nel buio [Luci di Vetro] sembra semplice ma nei suoi scatti si sente qualcosa, una ricerca ricorrente in quell’elemento domestico, un piccolo sole nella stanza, nella camera, nel bar. E dal bar coglie un altro elemento, di una bellezza banale, che rielabora e chiama [Riflesso], e infatti anche in quell’elemento che raddoppia, rendendolo scultoreo, ci vede delle luci, dei lampi triangolari resi con il vetro colorato. Così quasi naturalmente e con inevitabili influenze reciproche, tutte le immagini si fanno corpo, si fanno scultura. Qui subentra un altro discorso, dove piuttosto che la fotografia, è stato il disegno alla base della ricerca. Ed è evidente quindi, nel disegno che Luca Cerioni incide sul parabrezza e gli specchietti della sua auto [The Passenger], nel tentativo di fissare delle immagini che appartengono al tragitto quotidiano che fa per arrivare da una città all’altra. Quasi che la memoria non fosse sua ma dell’automobile che guida. O come se le immaginni ci potessero rimanere appiccicate come i moscerini più imprudenti. E gli specchietti retrovisori allora? È un guardare strabico, avanti e indietro? Per lo più è lo sfasamento, non ciò che è palese, a rendere l’immagine intrigante.
Federico Galdiero si fa un selfie in pittura acrilica, collocando la rappresentazione di sè in una città ideale o idealizzata da [paradiso perduto], ricollocandosi in un mistero che invita a esplorare. L’architettura fa da scenografia mentale alla figura oscillante tra maschile, femminile, animale, che, volutamente o meno, può porre questioni sull’antropo-etero-centrismo.
Raffaella Pierdominici invece disegna una panchina, poi pensa a come renderla scomoda, e solo sperimentandola si può sentire perchè non è così accogliente come sembra. È stato detto (quasi) tutto, sicuramente in modo carente. Perchè scrivere un testo che parla di opere, è scrivere un’altra narrazione. E mentre decidi cosa scrivere, escludi altre cose per non farla troppo lunga. Metonimie, correlazioni, sostituzioni, e così via.
Però c’è ancora qualcosa che ha a che fare con il “cominciare ad avere occhi” di cui parlava Saramago. Credo che attraverso l’arte si cominci ad avere occhi, e che anzi, un gruppo organizzato, senza la sensibilità dello sguardo, senza avere allenato la percezione, possa sviluppare una solidarietà solo occasionale, o convenzionale, ma per andare più a fondo serve saper discriminare, oggi più che mai, nelle pieghe dei messaggi, nelle messe a fuoco delle immagini. Ricollegare le immagini ai corpi.
Ecco allora che se diamo spazio all’attenzione si riesce a mettere a fuoco ciò che passandoci davanti ogni giorno diventa invisibile. Uno squarcio tra le vetrine svuotate, in attesa di affitti che chissà se arriveranno di nuovo, dei frammenti di marmo che restano spaccati, i cuscini ostili. Ferite aperte, che solo uno sguardo attento può tentare di ricucire. Forse. O forse è nelle associazioni che bisogna andare, discutere nei bar, incontrarsi nelle piazze, fare ironia, manifestare. Così lo sguardo che impari attraverso l’arte lo riversi in un’altra piazza. E bum. Seguono emoticon vari di saluto.

Mostra collettiva

Opere di:
Lucia Andreozzi
Roberta Brugnola
Luca Cerioni
Federico Galdiero
Raffaella Pierdominici
Alessia Rinaldi
Isabella Torregiani

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